Roma, cosmopolita o confusa?

Roma accoglie o sopporta gli stranieri? Questa è la domanda scomoda che pochi hanno il coraggio di affrontare. Accogliere è riconoscere, dialogare, costruire. Sopportare è tollerare a denti stretti, senza visione, fino all’esplosione. E Roma, oggi, sembra molto vicina a una deflagrazione sociale.

In questo articolo ti porto in un viaggio a otto tappe: niente teoria astratta, solo esperienza viva. Ti racconto cosa significa essere cosmopoliti, quando le culture si scontrano, e come si può evitare che le differenze diventino barriere. E soprattutto ti spiego perché posso permettermi di parlarne: perché l’ho vissuto sulla pelle, nelle relazioni, nel lutto. Alla fine, ti lascio un invito: costruire insieme uno spazio nuovo. Imperfetto, certo. Ma possibile. E nostro. Se vuoi ne possiamo parlare subito.

Chi sono e perché parlo di questo

Mi chiamo Giuseppe Vitale. Faccio l’attore e aiuto le persone a imparare. Ma soprattutto ho vissuto ciò di cui parlo.

Per anni ho avuto relazioni importanti con donne provenienti dall’Africa e dall’America Latina. Ho conosciuto il dialogo autentico, le differenze profonde, i conflitti culturali. Ho imparato che l’amore apre le porte, ma serve anche pazienza, ascolto, coraggio.

Porto con me anche una ferita profonda: mio padre, Leonardo Vitale, artista di strada e madonnaro, è stato aggredito a morte da un uomo africano. So cosa significa convivere con la rabbia, la paura, il dolore. E so anche cosa vuol dire scegliere ogni giorno di andare oltre.

A Roma ci ho vissuto per anni, ci torno spesso ed è la città dove sto progettando di vivere il resto della mia vita. Infine a essa ho dedicato diversi articoli nel mio blog come ad esempio Le meraviglie e le risposte di Roma e La Roma del Nuovo Rinascimento.

Scrivo da lì. Dall’intreccio di amore e perdita, ferita e costruzione.

Cosa significa davvero essere cosmopoliti?

Essere cosmopoliti non è una cartolina colorata con bandiere e sapori esotici. È abitare una società dove le differenze si contaminano, si ascoltano, si trasformano.

Il termine viene dal greco: «kòsmos» (mondo) + «polítes» (cittadino). Un’idea radicale, nata con Diogene il Cinico, che si definiva cittadino del mondo quando il mondo era ancora un territorio sconosciuto, pieno di promesse e ombre.

Ma il cosmopolitismo non è solo storia o linguistica. È una posizione filosofica: quella che riconosce nell’essere umano, prima ancora che nel cittadino, il fondamento del diritto a esistere ovunque, a dialogare con chiunque, a immaginare un futuro che non si fermi ai confini.

Oggi, essere cosmopoliti richiede scelte quotidiane. Presenza. Apertura. Coraggio. Ed è una pazienza attiva, quella di chi costruisce relazioni, non barriere.

Roma lo è stata davvero?

Roma è stata cosmopolita in epoche storiche molto precise e documentate. Già nel I secolo d.C., sotto l’imperatore Traiano, l’Urbe contava oltre un milione di abitanti, provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo. Mercanti siriani commerciavano spezie al Foro Boario, filosofi greci insegnavano retorica nelle scuole del Palatino, soldati africani prestavano servizio lungo il Tevere, mentre schiavi gallici costruivano le grandi opere.

Nel II secolo, sotto Adriano, si costruivano templi egizi, si celebravano culti persiani, si parlavano decine di lingue. Roma era inclusiva non per compassione, ma per visione strategica: inglobava culture perché riconosceva il valore di ogni parte del suo impero.

Questa vocazione si è riaccesa anche nel Rinascimento, quando Roma tornò a essere calamita per artisti, filosofi e architetti da tutta Europa. Bramante, Raffaello, Michelangelo lavoravano fianco a fianco con maestranze provenienti da ogni angolo d’Italia e del continente. Nacquero accademie internazionali, botteghe miste, corti aperte al pensiero straniero. La città, ancora una volta, mostrava che la grandezza nasce dal dialogo e dall’incontro.

Oggi, di quella vitalità resta un’eco lontana. Le culture presenti si sfiorano, convivono in spazi separati. Il rischio è trasformare Roma in una città di cartoline e memoria, più osservata che vissuta, più citata che attraversata. Se vuoi possiamo approfondire insieme questo aspetto.

Le città che oggi sono davvero cosmopolite

New York, Londra, Toronto, Parigi, Dubai. In queste città, la mescolanza non è un evento straordinario, ma una realtà quotidiana. Si tratta di luoghi dove l’incontro tra culture avviene nei mercati, nelle scuole, negli spazi pubblici, nei media. La convivenza non è sempre armonica, ma è vissuta come parte integrante della vita urbana.

  • Le comunità partecipano alla narrazione pubblica della città, incidendo sulla cultura dominante;
  • Il potere si lascia attraversare da culture diverse, creando nuove forme di rappresentanza;
  • Le opportunità si distribuiscono su più livelli, raggiungendo anche chi arriva da lontano.

Roma, invece, sembra vivere un paradosso: accoglie nella pratica, ma resta muta nel simbolico. Le comunità straniere spesso restano confinate nei quartieri, escluse dai luoghi di decisione e dai grandi racconti culturali. La loro presenza è visibile, ma di rado valorizzata. È una città che registra la diversità, ma fatica a narrarla davvero.

Una visione senza radici non cambia nulla

Nel mio articolo precedente, scrivevo di come Roma stia tornando a essere un centro globale di potere, pace e visione. Parlavo del Papa, delle delegazioni internazionali, del Vaticano che torna a dialogare con la città e del Giubileo che sta ridisegnando le sue strade.

Ma tutto questo rischia di restare superficie se non è accompagnato da una vera visione culturale e sociale. Quella che nasce dal basso. Quella che costruisce convivenza quotidiana.

“Serve una visione” si dice spesso in questi casi, atteggiandosi a intellettuali. Ma una visione senza radici si dissolve. Servono mani sporche di realtà. Serve ascolto nei mercati, nelle scuole, nei cortili, nei bar di periferia.

I progetti che cambiano le città iniziano dal basso, si innervano nel quotidiano, si moltiplicano con l’azione. Roma ha bisogno di iniziative vive, non di dichiarazioni.

Le tre condizioni per una città cosmopolita

Una città si definisce davvero cosmopolita quando si attivano condizioni strutturali e culturali capaci di favorire l’incontro autentico tra le diversità. Questo significa:

  1. Movimento spontaneo e continuo di persone: non solo flussi migratori, ma anche scambi economici, viaggi culturali, reti professionali. Le città cosmopolite sono punti di attrazione costante, luoghi dove si arriva e da cui si riparte, portando e ricevendo idee, capitali, visioni.
  2. Mescolanza concreta e quotidiana nei quartieri e nei servizi: non bastano le presenze, serve convivenza vera. Le scuole devono essere spazi di pluralismo reale, le abitazioni miste devono generare vicinato, i trasporti e i luoghi pubblici devono essere pensati per favorire l’incontro, non l’isolamento.
  3. Riconoscimento reciproco, rappresentanza e accesso al potere culturale: significa che tutte le culture presenti devono potersi raccontare, devono trovare spazio nei media, nelle istituzioni locali, nei centri decisionali. Una città è davvero cosmopolita quando chi arriva può contribuire a scriverne il futuro, e non solo adattarsi a un racconto già deciso da altri.

E quando le culture si scontrano?

Succede. È inevitabile. Le città non sono armonie perenni, ma territori di attrito. Alcune idee, pratiche, valori entrano in collisione. Ed è proprio lì che serve lucidità, fermezza e immaginazione.

Per affrontare questi scontri servono contesti protetti e intelligenti dove il conflitto culturale possa emergere, farsi parola, essere attraversato senza degenerare. Serve un’agorà moderna: luoghi pubblici, spazi teatrali, forum civici dove i cittadini possano confrontarsi, anche con durezza, ma con regole chiare e condivise.

Le regole? Rispetto reciproco. Difesa della libertà individuale. Tutela della dignità. E poi strumenti capaci di decostruire la paura: l’arte, la parola, il teatro, l’ironia. Questi non sono abbellimenti: sono leve per trasformare tensioni in coscienza collettiva.

Una città matura non cancella lo scontro. Lo riconosce, lo ascolta, lo mette in scena. E da lì, inizia a generare futuro.

Cosa possiamo fare tu e io?

Io ho deciso di raccontare tutto questo. Con i miei spettacoli, i monologhi, le lezioni, i laboratori. Voglio aprire spazi di incontro, portare le voci ai margini nel cuore del discorso civico.

E tu? Se insegni, crei, organizzi, sogni… possiamo fare qualcosa insieme:

Scrivimi. Parliamone. Incontriamoci.

Roma non cerca spettatori. Ha fame di voci vere, corpi vivi, atti coraggiosi. Ha bisogno di te.


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