La vita nuova tra luminarie e copeta

Tutto ha un inizio, un punto da cui qualcosa comincia. Una svolta a un incrocio, un improvviso apparire di una sagoma, una rondine che appare dopo i mesi invernali… La vita nuova di mio padre, e della famiglia in cui sono nato, iniziò un giorno che attraversai Porta degli Ebrei a Oria, da via Francesco Milizia verso via Giacinto D’Oria, dove abitavamo. Il mio papà salì i gradini di casa mentre io tornavo da scuola. In un’ora in cui doveva essere a lavoro, a Taranto. Hanno licenziato papà mi disse mia mamma appena misi piede in casa.

Avevo undici anni e per tutto quel lasso di tempo lui era stato operaio. Mia madre casalinga. Mio fratello e io i figli, che passavano il tempo tra la scuola, Mazinga Zeta e L’uomo tigre, i compiti, il pallone, le biglie di vetro che chiamavamo palline. L’unica agitata era Benedetta, la donna che papà aveva sposato, un anno e due mesi prima che nascessi io, nel dicembre del 1972. Era stata lei a volere più di ogni altro quel tipo di impiego per il marito.

Lui nei primi giorni di matrimonio prese tela e cavalletto e andò a dipingere a Montalbano, tanti anni dopo diventato un parco cittadino. Lì tra i pini, le mura del castello, gli eucalipti, i cipressi dipinse un ponticello in pietra sopra la fontana del giardino. Tutto contento andò da mia madre e glielo mostrò. Lei per tutta risposta gli disse: Pensi che potremo vivere con questo?

Mio padre non parlava e non commentava la cosa. Si rifugiò in un silenzio che durò alcuni mesi. Lo ruppe solo il 15 agosto del 1985. Eravamo sugli stessi gradini della casetta dove l’avevo visto anzitempo tornare dal lavoro il giorno del licenziamento. Voglio provare a fare il madonnaro mi disse. Comprerò dei gessi e farò un dipinto oggi per la festa della Madonna di Gallana. E lì io mi sentì un po’ smarrito. Forse perché sei anni prima abitavamo fuori dal paese, nel vicino santuario di San Cosimo alla Macchia. E nel giorno della festa proprio dei Santi Medici facemmo una capatina a Oria. Mentre passeggiavamo tra le luminarie, la folla e le bancarelle per terra vedemmo un dipinto. Attorno c’era ressa e sopra quell’opera realizzata sull’asfalto c’erano delle monetine. Io restai incantato a guardare i colori del manto di San Cosimo e Damiano, il rosso, il verde, ma anche tutti qui segni con il gesso bianco. I miei proseguirono a camminare.

Dopo un po’mi voltai e non li vidi più. Spaventato cominciai a guardare in tutte le direzioni. Iniziai a cercarli. Piansi. Chiesi a chiunque incontravo se avevano visto mio papà, il disegnatore, come alcuni lo chiamavano. Furono venti minuti traumatizzanti per me. Quando mio padre mi ritrovò disse: ho fatto più fatica a ritrovarti perché tu, invece di restare dov’eri, e aspettare che ti recuperassimo ti sei messo a girare cambiando molte volte direzione.

Forse anche questa volta dovevo lasciarlo fare. Restare dove e come ero. Avrebbe ritrovato lui la via. Anche perché lui era mio padre. Solo che io bambino non lo sono mai stato o, meglio, non mi sono mai sentito tale. Proprio in virtù di questa mia voglia di muovermi, di cercare, di riuscire a trovare ciò che poteva incantarmi. Perciò gli dissi che sarei andato con lui alla festa in campagna.

E così fu. Non ne avevo mai vista una e non ero mai stato presso questa antichissima chiesa. Mi misi a guardare il manifesto della festa dove figurava un complesso che avrebbe suonato. Dove si annunciavano i fuochi d’artificio. E dove c’era raffigurata questa “santa” che mio padre iniziò a disegnare con i gessi comprati in cartoleria, i gessi della scuola. Stavano in uno scatolino. Leonardo iniziò a tracciare tutta la figura. Poi estrasse il giallo, il marrone e iniziò a colorare il volto. Un signore che era rimasto a guardare dall’inizio scosse la testa e guardò un altro con cui stava camminando. Andarono via. Io li seguì e lo stesso signore commentò così ciò che aveva visto: Questo non sa disegnare.

Per la prima volta in vita mia capì che voleva dire il sudore freddo. Insieme a quello mi vennero dubbi su papà e una domanda: Possibile? Eppure gli ho visto dipingere quadri. Poi pensai: sì però quelli erano a olio. Magari non sa usare i gessi. Infatti quando aveva iniziato a colorare la faccia della donna dipinta aveva strani colori a macchie scure e chiare. Forse è in difficoltà credetti. Ma fui distratto da alcune ragazzine e dalla bancarella dei dolciumi e non ci pensai più.

Quando tornai restai colpito da quel volto dipinto che sembrava incarnato. Il pasticcio iniziale si era trasformato in magia, come al solito. E quando poi negli anni successivi questa scena si ripeteva in ogni cittadina del leccese, del tarantino, del barese dove andavamo ormai ero sicuro di lui. Anche se i gessi della scuola non li usava quasi più ed era passato ai gessi per professionisti come i Policromi e i Rembrandt all’inizio, soprattutto per rendere la pelle, faceva dei passaggi che lasciavano interdetti i passanti che, poi quando tornavano, restavano incantati per il risultato.

Quel madonnaro di Manduria, poi, il primo che avevo visto in vita mia lo incontrammo molte volte. Mia madre si rincuorò perché papà lavorava di nuovo e guadagnava abbastanza. E io potevo spesso andare in giro a guardare luminarie, mordere pezzi di copeta e fare il filo alle ragazze.

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